Le Botteghe

All’interno del museo sono allestite delle sale completamente ambientate ai tempi antichi.

Ramaio

Spesso si vedono, fuori dall’uscio di un piccolo laboratorio malmesso, uomini ripiegati su sé stessi, seduti su una seggiola, intenti a battere con micrometrica precisione su pentole, mestoli, bracieri, brocche di rame.
Il tintinnio argenteo e allegro del martello sulla superficie di quel colore caldo dà il senso dell’operosità e maestria.
All’interno della stanza, centinaia di attrezzi di diverse fogge sono appesi alle pareti.
Hanno forme antiche, quasi arcaiche. Come se il rame, pur con il passare dei secoli, voglia essere lavorato, piegato, inciso dall’uomo sempre nello stesso modo.

Bottega alimentare e vari (Drogheria)

Quanto ben di Dio!
Già da fuori la porta si sente un profumo di formaggio, latte, pane, salumi.
Profumo di festa.
Accanto all’ingresso, sul muro, sono appese targhe in latta grigia con scritti in nero i prodotti in vendita.
Per lo più alimenti semplici, primari, fondamentali.
Le donne ordinano e scrutano ogni movimento al di là del bancone, controllando che sia preso effettivamente quanto richiesto.
Chiedono, contrattano, calcolano.
Il salumiere, o pizzicagnolo, fa i conti su pezzetti strappati di cartapaglia con la matita corta. Ed emette il verdetto.
Le donne che escono dal negozio hanno borse piccole.

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Osteria

Grande baccano già prima di entrare nell’osteria.
Odore di vino e di cucina.
Le carte della briscola cadono con forza o con un sorriso beffardo sui tavoli scheggiati.
I bicchieri di vetro a campanella si alzano leggeri, tenuti con due dita da uomini con il cappello in testa.
Vino di scarsa qualità, ma costa poco e aiuta a stare in compagnia.
Si fanno pettegolezzi, si parla del giorno che è andato, del vento e della pioggia, maledetti, che rovinano il raccolto.
L’oste, paziente e imponente, sembra sia assorto nei suoi pensieri, ma è attento ad ogni movimento e sguardo di richiesta.
E alla fine della serata si torna a casa, un po’ più leggeri, dalla propria “vecchia”.

osteria antica

Il Carradore

Per costruire carri, vuoi per lavoro, vuoi per passeggio, bisogna essere bravi. Bravi falegnami, bravi fabbri, bravi disegnatori.
Saper scegliere il legno giusto, saper temprare e piegare il ferro, saper dipingere miniature e decorazioni. Non è per tutti.
Da legno nodoso, da ferro grigio, nascono le magiche ruote. Rosse, bianche e blu. Pronte a portare persone, merci, animali, attrezzi in cima alla collina, o in fondo al fosso. O in paese, dove i carri sembrano un pò insicuri, con quell’andare avanti scartando a destra e sinistra sulla viscida pavimentazione.
Le forti mani che forgiano questi grandi mezzi, che vincono sul ferro e sul legno, sono guidate da spiriti capaci di creare capolavori di gusto e raffinatezza, usando con maestria disegni e colori.
E questi antichi mezzi acquistano l’anima.

carradore

Il Dentista

La sua è una poltrona su cui ci si siede sempre poco volentieri.
Avvicinandocisi, le pareti della stanza bianche da ospedale, gli odori presenti già prima di entrare, i rumori metallici oltre la porta, le sale d’aspetto sempre un po rimediate non aiutano a conciliarsi con l’ambiente.
Luce da interrogatorio, che contrasta con il sorriso del medico che ti chiarisce quanto sta per cominciare a fare. Così come da supplizi e torture hanno l’aspetto i vari ferri perfettamente allineati.
I visi di chi è in attesa tradiscono notti insonni e pasti saltati. Si fa ricorso a questa poltrona quando il fastidio si trasforma in un condiviso tra i presenti “non ne posso più”.
Mai, come in questo caso, è appropriato dire che dolore scaccia dolore.

Il Cappellaio

Creatore di ombra estiva, durante il lavoro e le feste. Una treccia di paglia dorata che si arrotola, come un tratturo che si inerpica intorno alla collina, trasformandosi in cappello leggero, allegro, quasi sbarazzino.
Treccia che ricorda le spighe di grano, prima di essere raccolte.
Il cappellaio è chino sul suo lavoro, mentre a poca distanza le forme di legno aspettano di essere usate insieme al vapore. Ago, filo, paglia e cotone per creare il cappello di tutti i giorni, da sventolare nella calura di luglio, da tenere basso sugli occhi durante la trebbiatura, a riparare gli occhi dalla polvere e dal sole.

cappellaio

Scalpellino

Il tintinnio argenteo degli scalpelli sulla pietra nasconde la durezza del lavoro.
Lo “scultore senza arte” lotta con fermezza e metodo contro la pietra chiara, scrutando e seguendo le venature, le imperfezioni della materia.
Braccia robuste, precise, sensibili sulle superfici da sgrossare, levigare, incidere, per creare pavimentazioni di piazza e vie, abbellire facciate di palazzi, dare fontanili per abbeverare bestie e uomini. La cava, bottega a cielo aperto, amplifica la sensazione del mutare delle stagioni. Caldissima d’estate, oltremodo fredda d’inverno. Ma, inesorabile, il battere delle mazzette sugli scalpelli non vede riposo. Pietra ostile, ora materia amica.

scalpellino

Il Calzolaio

Già da lontano si sentono i colpi sordi del martello sulle teste delle “semenze” che penetrano il morbido cuoio.
Il basso banchetto di legno vissuto, sparso di grumi di colla, chiodi, spago, attrezzi con punte curve di diverse misure e fattezze. Eppure in questo disordine il calzolaio trova tutto ciò che gli serve. Semplicemente con uno sguardo veloce sopra gli occhiali. Scarpe un po alla rinfusa aspettano di essere riparate, facendo da contraltare a quelle pronte, lucide, accoppiate sugli scaffali di fortuna. C’è eleganza e precisione nel lucidare la pelle delle calzature. Gesto veloce, ampio, deciso, ma morbido, educato. Fa sempre capolino, appeso su un chiodo, un pezzettino di cuoio tagliato, da utilizzare per salvare una scarpa da morte certa.

calzolaio

Sarto

Essere sarti in città o campagna è comunque difficile.
In città hai clienti esigenti, che vogliono tagli accurati, all’ultima moda.
In campagna devi saper fare miracoli per rendere di nuovo vestiti quelli che sono entrati nel laboratorio in forma quasi di stracci.
aboratorio che ovatta i suoni, colpevoli le tante stoffe, a pezzi, scampoli o a rotoli presenti sugli scaffali, sui grandi tavoli di lavoro, sugli strapuntini delle macchine da cucire.
Già, le macchine da cucire; attrezzature industriali in miniatura, nere con i loro ghirigori oro.
Il supporto e la pedaliera in ghisa nera fanno ritornare in mente balaustre, panchine dei giardini pubblici.
Quando il sarto la usa, la macchina da cucire suona come un treno sbuffante.
Ai bambini il ditale sembra un secchio delle bambole, ed il quadrotto di gesso sulla stoffa, silenzioso, scorre come la prua di una nave che segna la rotta percorsa.

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Barbiere

È una consuetudine della festa, quasi un rito.
Il barbiere, durante la settimana, è più un punto di incontro, uno scambiare qualche chiacchera, qualche pettegolezzo.
Ma il sabato e prima delle feste comandate è un
continuo spuntare baffi, accorciare senza troppe
sfumature, sistemare bambini non proprio felici
sulla poltroncina con la testa di cavallo.
I gesti sono veloci e decisi, quasi sempre accompagnati da parole sulla nuca e sguardi attraverso lo specchio.
Gli strumenti, di acciaio brillante, sono disposti, in modo un po’ disordinato, sopra le mensole di vetro, con il loro aspetto quasi da sala operatoria.
L’uscita dalla bottega è accompagnata da una scia di profumo, testimone dell’uso della lucida brillantina.

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Farmacia

Un camice bianco, stirato, si aggira dietro un bancone solenne, in bel legno.
Entrando nella sala, si scorgono subito i vasi in vetro posti nelle teche, in fila come soldati.
Hanno qualcosa di strano.
Quasi di magico, di stregoneria.
Polveri grigie e colorate, foglie sminuzzate e seccate, “cose” simili a rametti spezzati, pronte per passare sotto il pestello ed essere mischiate per creare sollievo e speranze di guarigione.
In fila, le persone attendono il loro turno con un foglietto in mano, con scritte cose e nomi incomprensibili.
Ma attendono con fiducia e quasi con reverenza una cura, una risposta, una parola di conforto ai loro piccoli e grandi mali.
Scatolette impacchettate nella carta velina.

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Fabbro

Dall’antro scuro, d’aspetto quasi infernale, escono suoni di metallo battuto, luce di fiamma, odore aspro di fusione.
Chi si aspetterebbe di vedere nascere, assieme a lame di falci, denti per smuovere le zolle, picconi, vanghe, anche leggeri ghirigori in ferro battuto per rifinire i carri, ringhiere dei terrazzi, batacchi per le porte.
L’uomo fabbro, per lavoro e vocazione fisicamente possente, scuro, quasi ad assomigliare agli elementi che ha intorno, che fanno la sua vita.
Quanta potenza in quei gesti, quanta attenzione in ogni movimento.
Lo sguardo chino su ciò che sta plasmando, ma profondo e fiero.

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Falegname

La natura ha donato all’uomo una risorsa preziosa, unica: il legno.
Il legno che circonda di cose importanti l’uomo, grazie alla sua duttilità ed alle sue proprietà.
E grazie alla maestria del falegname, che trasforma una materia viva, forte e delicata allo stesso tempo, in mobili, suppellettili, stoviglie, attrezzi da lavoro, giocattoli.
La bottega del falegname, con i suoi attrezzi, banconi, mensole nascosti da un velo di segatura, polvere di legno. Quasi candido.
Gesti e suoni che sembrano violenti, scardinanti; ma che, invece, levigano, sistemano, aggiustano, fanno combaciare. Con l’odore del bosco.

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Apicoltore

Da lontano sembra un essere alieno. In testa una cosa strana, quasi un disco volante con una rete attaccata sotto. Movimenti lenti, spesso con intorno del fumo bianco.
E, invece, è un uomo con una grande passione. Perché chi fa l’apicoltore riconosce le proprie api. Perché è un lavoro da certosino, in cui tempistica e tecnica sono fondamentali.
Uomini senza timore, perché le api, insieme, possono fare paura.
Ma le stesse api ci concedono, con la loro vita, il loro bene più prezioso.
Le arnie sono sempre disposte in luoghi fortunati.
In mezzo a prati, ai confini con il bosco, in luoghi aperti ma riparati.
In mezzo a tanta tranquillità ferve un lavoro ancestrale, senza pause.
E l’uomo ne raccoglie il nettare, delicatamente, per non disturbare.

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Vasaio

Per terra scarti e schizzi di argilla, ormai quasi un pavimento della bottega.
La stessa argilla che è appoggiata, ancora informe, sul piano rotondo girevole,
sul tornio che sembra una macchina medievale. Le mani accarezzano con delicatezza e forza la materia, che si lascia plasmare docile e obbediente.
E la creta si allunga, si allarga, si svuota quasi in un gioco con le mani che la toccano.
Mani sempre bagnate, rivestite di quella terra levigata, dal colore caldo, che le rende simili a mani di statua.
Il piede sotto il banco compie un movimento elegante, continuo, senza scatti o aritmie.
L’uomo si piega sull’oggetto che sta creando con grande concentrazione, quasi a proteggerlo. Tutt’intorno si affastellano cocci, piatti, vasi, brocche, in equilibrio precario.

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